di Ivan Manuppelli
Illustrazioni di Piero Tonin
”Questa non è un'intervista ma l'enciclopedia della mia vita”
Bruno Bozzetto
Ivan Manuppelli: Lo studioso di cinema d'animazione Mario Verger, nell’articolo Il mondo di Bruno Bozzetto, sottolinea alcune diversità e analogie tra la sua opera e quella di Disney. Entrambi date quasi un taglio antropologico, orientando le vostre tematiche sugli esseri umani e sul loro modo di agire.
Però, se Disney rende i propri personaggi degli interpreti, facendone emergere vizi, sentimenti e virtù, Lei preferisce dirigerli dall’esterno, osservarli da lontano. E in questo modo riesce a darci un quadro più lucido e, se vogliamo, anche più spietato…
Bruno Bozzetto: Direi che forse la fai più complicata di quanto lo sia realmente (ride).
Vedi, tutto è funzionale: realizzi qualcosa solo quando sei effettivamente in grado di poterla realizzare. Se ho utilizzato un disegno semplice, pulito, molto grafico, lavorando molto di più sui contenuti, è perché non avevo i mezzi e le potenzialità per fare altrimenti.
I film di Walt Disney che vedevo da ragazzino avevano una ricchezza e delle animazioni inimitabili. Era impossibile cercare di fare un lavoro in quello stile, con i mezzi che avevo, e quindi ho cercato delle altre vie.
Quando ho scoperto i film di Norman McLaren, oppure del National Film Board of Canada, o le produzioni della U.P.A., cioè film che usavano il disegno animato con dei personaggi più puliti e più semplici, ho capito che anch’io potevo fare disegni animati.
Quindi alla base della tua domanda c’è un discorso di funzionalità: alcune cose sono in grado di farle, altre no.
Automaticamente, da questo deriva che a un disegno più semplice e schematico si dovrà affiancare maggiore forza nella storia. Se i disegni meravigliosi di Disney potevano permettere di affrontare una storia semplice, trasformandola comunque in qualcosa di spettacolare, io dovevo adottare un’altra strategia. Dovevo lavorare su una bella storia.
Quindi, visto che i film per bambini non mi interessano, non mi sono mai interessati, ho cercato di parlare dell’uomo.
Il primo film che ho realizzato è stato Tapum! La storia delle armi. Mi sembrava un argomento molto interessante: le invenzioni create dall’uomo per migliorare la vita sono pochissime, tutto il resto è solo armi, armi e armi. Tutta l’umanità ha dedicato il novantanove per cento del suo tempo a uccidere il prossimo. Se vai in un qualunque museo storico saranno le armi le vere protagoniste.
Ed è da questa idea che è nato il mio primo film sull’uomo, che poi ha dato il via a tutti gli altri.
IM: Una serie di film in cui gli uomini sono spesso visti come gli insetti dei suoi primi cortometraggi dal vero: la macchina da presa è in campo lungo, o addirittura lunghissimo, e Lei li lascia liberi di agire nei loro impulsi.
BB: Vedi, sono affascinato dagli insetti: sono straordinari. Nessuno ne parla, ma sono i veri marziani sulla Terra. Sono diversissimi, migliaia di specie, e sono convinto che quando l’uomo si estinguerà dalla Terra loro ci saranno ancora. Ho letto su una rivista che sono apparsi addirittura parecchi milioni di anni prima dei dinosauri: sono loro i veri protagonisti del pianeta! È proprio dalla passione per gli insetti che mi è venuto istintivo parlare dell’uomo e vederlo da lontano.
IM: E se osserviamo i comportamenti umani da lontano, quasi come se fossero degli insetti, diventiamo dei giudici più lucidi. È così?
BB: Dalla mia passione per gli insetti è venuto anche istintivo, dato che parliamo di disegno animato, parlare dell’uomo e osservarlo da lontano. Forse è per questo che mi hanno chiamato entomologo dei comportamenti umani. Se provi a metterti a cinque chilometri di distanza, a osservare una città, hai una impressione diversa rispetto a quando la osservi da una via al suo interno. Lo stesso se guardi un uomo da un metro o da cinquanta metri: cambia, perde anima e fisionomia, diventa semplicemente una cosa che si muove. E quando agisce, ti accorgi che spesso agisce da stupido. Oppure nemmeno hanno senso, le sue azioni. Nel disegno animato questo discorso mi affascina.
Da sinistra: Giuseppe Laganà, Maurizio Nichetti, Bruno Bozzetto e Guido Manuli al lavoro sulla sequenza del Bolero di Allegro non Troppo (1976).
IM: Lei ha sempre dichiarato che l’idea è alla base di tutto. Poi viene l’estetica.
Però alcuni suoi lavori sono nati da un puro suggerimento visivo.
Cortometraggi come Moa Moa, I due Castelli, Ego…
Mi incuriosisce quest’altro aspetto di Bozzetto, un po’ più irrazionale e istintivo, se vogliamo.
BB: C’è da dire che quando avevo lo Studio eravamo in tante persone. Così per alcuni film realizzavo tutto, ma per altri poco o quasi niente. In Moa Moa e in Ego ho seguito l’idea generale ma ho partecipato poco nulla nel disegno, perché non era nelle mie corde.
Nel caso di Ego, poi, ho lasciato completa carta bianca a Giovanni Mulazzani, bravissimo disegnatore, e a Luciano Marzetti che si occupava degli effetti speciali. Gli ho detto: qui c’è una storia, voglio raccontare queste cose, però voi sperimentate. Mi servivano scene di sesso, molto sfrenate, molto libere, utilizzando anche molte sovrimpressioni. Abbiamo fatto fino a 7-8 sovrimpressioni sullo stesso fotogramma, e allora era molto più complicato di adesso.
Anche per Allegro non troppo è accaduta una situazione analoga. Prendi la sequenza del Bolero: mi sono dovuto appoggiare a Giorgio Valentini, che ha curato tutti i personaggi. Ne ha disegnati centinaia, ma poi ne abbiamo tirato fuori solo una trentina. Però l’ho lasciato libero: fai tutto quello che vuoi. Ti svegli la mattina e ti viene in mente un mostro con sei occhi? Disegnalo! Sbizzarrisciti! Poi vediamo se funziona, e in quel caso lo usiamo.
Vedi, quando lavori in uno studio devi usare al meglio le persone con cui collabori. E per certi lavori mi è sembrato giusto appoggiarmi ad artisti che sanno realizzare meglio quello che io da solo non saprei fare.
Infatti non ci tengo a dire di avere uno stile. Per me lo stile non ha poi questa grande importanza. Quello che mi interessa è raccontare una storia nella migliore maniera. E se mi serve solo una riga, la racconto con quella. Se, nel caso del Bolero, mi serve un disegno ricco, complesso, allora in quel caso lo faccio. Ma è una scelta funzionale anche questa. È sempre funzionale alla storia. La storia viene prima di tutto.
Un po’ come accade nel cinema dal vero: prima si lavora sulla storia, poi si sceglie chi dovrà interpretarla. E lo stesso succede nel mio caso.
Mentre questo è un grosso problema del nostro settore: moltissimi autori di film d’animazione disegnano bene, benissimo, perché sono entrati in questo campo proprio perché sapevano disegnare bene. Ma il risultato è che sono spesso più appassionati al disegno, che alla storia. E quindi i loro film saranno anche più omogenei dei miei, sicuramente, però avranno sempre questo fardello del disegno e dello stile da portarsi dietro.
Io uno stile non penso di averlo, salvo una grande passione per la semplicità grafica, e quindi posso usare quello che voglio per raccontare le mie storie. Addirittura faccio film dal vero, se mi servono. Non deve essere per forza solo animazione.
IM: Dal Signor Rossi, a Una vita in scatola, fino al recente Mister Otto... Lei sembra avere una predilezione per l’uomo medio.
Persino quando cerca di elevarlo dall’anonimato, nascono dei supereroi piuttosto goffi: Minivip, ma anche Looo, se vogliamo… Ce ne può parlare?
BB: A me piace il perdente! L’uomo che subisce mi affascina più del supereroe: tra Minivip e Supervip, la mia attenzione cade maggiormente su Minivip.
L’uomo debole permette situazioni più divertenti, perché è costretto a difendersi con il ragionamento. Prendi i capisaldi del cinema comico: Charlot faceva veramente ridere quando diventava cattivo, quando cercava di reagire con i suoi buffi mezzi.
Il debole che si difende con degli stratagemmi assurdi è più divertente. E poi è anche un fatto istintivo, l’uomo medio siamo noi, e quindi lo apprezziamo di più. L’uomo importante non mi interessa.
IM: A proposito di uomo medio, come è nata l’idea del film Alpha Omega? Mi è molto piaciuta la visione dell’uomo che abbiamo in questo cortometraggio.
BB: Questo è stato uno dei primissimi film che ho realizzato. Anche in questo caso si tratta di un lavoro prima di tutto funzionale: ero solo, non avevo soldi, non avevo collaboratori. Mi sono chiesto cosa fare. Così ho disegnato un omino, sempre nel mezzo dell’inquadratura. E poi mi sono messo a giocare con elementi che potevo maneggiare più facilmente, come il sonoro o il cambiamento di colore. Attraverso questi semplici elementi sono riuscito a raccontare la storia di questo uomo.
Questo film colpì la critica proprio perché lo realizzai giovanissimo. Eppure era già un film molto maturo, dato che parlava della vita e della morte. E un ragazzo che faceva un film del genere era comunque qualcosa di strano.
Anche in Alpha Omega c’è l’uomo medio, effettivamente. Ma poi con l’uomo medio si intende la maggioranza delle persone. È molto più facile che ci siano novantanove uomini medi e uno solo che è speciale…
IM: È vero che l’omino di Alpha Omega è stata anche testimonial di una serie di caroselli?
BB: È vero. Non mi ricordo per chi li realizzai, forse per Marzotto. La cosa andò così: videro questo film a qualche festival e siccome erano alla ricerca di soggetti un po’ diversi, un po’ originali, mi hanno proposto una serie di caroselli su questa stessa falsariga. Ma questo era per me già una legnata nei denti, perché un conto è fare un film, un conto è trarne del materiale per una serie. Io non sopporto la parola “serie”, il dover lavorare sempre sul medesimo spunto di base. Però si trattava di soldi, ed io ero a inizio carriera.
Nel progetto era coinvolto anche Marcello Marchesi, uno scrittore umoristico davvero intelligente che collaborò anche con Federico Fellini. Mi ricordo che andavo da Marchesi, che per me era anziano già allora, con il suo plaid sulle gambe, e che aveva uno studio in uno scantinato nel centro di Milano. Mi diceva di tirare fuori delle idee, che però a lui non andavano quasi mai bene.
Abbiamo realizzato dei caroselli che poi non ho più rivisto, ma non erano molto belli.
Vedi, non riesco a entusiasmarmi quando realizzo la seconda visione di qualcosa che ho già fatto. Perdo molto dell’originale interesse. Il bello è creare. Quando uno deve riprendere la stessa idea, modificarla e farne delle varianti, mi cascano le braccia. Adesso sto imparando, per forza di cose, perché in televisione in generale chiedono solo serial. Il lavoro bello è quello unico, cioè un’idea originale, che realizzi una volta sola e punto e basta.
Però si tratta sempre di film senza mercato.
IM: Tapum! La storia delle armi, Cavallette, Storia del mondo per chi ha fretta…
Spesso i suoi film sono una visione accelerata della storia dell’umanità.
Che cosa l’affascina nella accelerazione?
BB: Mah, diciamo che hai la possibilità di affrontare più cose, perché se condensi in pochi secondi dei concetti importanti riesci a trarne le cose più belle, più spettacolari, più divertenti. E questo mi affascina. Vedi, con il disegno animato tu hai: la sintesi, l’accelerazione appunto, e poi la possibilità di avere dei campi lunghi, delle angolazioni o delle ambientazioni assolutamente imprevedibili. Il mio film Baby Story ne è un esempio, dato che è tutto ambientato nel grembo di una donna. Questo nel cinema dal vero sarebbe un problema! (ride) Lo stesso vale per i campi lunghi, più difficili da realizzare, in modo elegante e pulito, nel cinema dal vero. E per la sintesi. La sintesi effettivamente mi piace, perché molti film (Una vita in scatola, Alpha Omega, Tapum! La storia delle armi) trattano un’intera vita di una persona, o addirittura la storia dell’umanità intera. E questo è affascinante, perché mi permette di prendere solo le cose che mi interessano. Ovviamente si è molto superficiali e qualunquisti, se vogliamo, però, perché no? È un modo per fare capire alla gente dei concetti importanti in maniera molto semplice…
IM: l ritorno del personaggio Minivip, protagonista del lungometraggio del ’68 Vip mio fratello superuomo. Ce ne può parlare più dettagliatamente?
BB: Questo progetto nasce dal fatto che ho ricevuto tantissime lettere, gente che vuole che io riprenda il personaggio di Vip mio fratello superuomo.
Non è che io abbia amato tantissimo questo lungometraggio, perché è stato realizzato con degli americani, che mi hanno imposto certe cose. Per farti capire, Supervip nella storia originale neanche c’era. Queste imposizioni mi hanno fatto entusiasmare di meno, anche se poi devo ammettere che effettivamente ne è uscito un film carino, che è piaciuto a tanta gente e che era anche abbastanza originale per l’epoca.
Quindi, viste tutte le attuali richieste, mi sono deciso a riprenderne i personaggi principali: Minivip e Supervip.
Inoltre, in questo periodo, come molti altri autori, nutro parecchio interesse per il 3D, È una cosa nuova, e mi incuriosisce provarla. L’avevo già sperimentato per un mio corto, Looo, dove c’è questo super omone che deve superare un provino stile Pixar.
Ora, come vi ho detto prima, io ho dei problemi nell’affrontare delle serie. Quindi mi appoggio a dei bravi sceneggiatori (Valentina Mazzola, Nicola Ioppolo, Fabio Fiandrini), ai quali lascio molta libertà creativa. Imposto l’indirizzo di tutta la serie (ad esempio, lui deve essere scalognato e il fratello arriverà sempre a salvarlo creandogli nuovi complessi di inferiorità), e poi passo questo spunto generale a soggettisti e sceneggiatori e assieme decidiamo cosa fare.
IM: E’ stata pensata come serie per adulti?
BB: Beh, non mi sono mai imposto un problema di target. Io mi sforzo sempre di fare dei film divertenti e belli per tutti. In genere non penso in modo particolare ai bambini, mi rivolgo più a un pubblico di giovani. Cioè a gente che abbia un buon senso dell’umorismo, che segua questo genere di cose con un certo interesse, con una certa intelligenza. Se poi il film è buono, e piace a tutti, tanto meglio. Ad esempio, io farei fatica a pensare e realizzare un serial come le Winx! Cioè, non è nelle mie corde. E comunque, tanto di cappello per il loro intuito, sono contento che guadagnino milioni perché magari i loro miliardi in qualche modo arrivano anche a noi, se qualcuno deciderà di produrre qualcosa di diverso. Forse la conclusione è che non sono tagliato per fare dei film che fanno soldi. Me l’hanno chiesto anche ieri, ad un convegno, quanto abbiamo guadagnato con i nostri tre lungometraggi, ma francamente non lo so. Non abbiamo mai fatto neanche un conto di in & out! Probabilmente se i miei film circolano ancora adesso, dopo trent’anni, i costi saranno stati sicuramente ripagati. Se non fosse stato per il bravo Antonio D’Urso, direttore commerciale e amministrativo dello studio, non avremmo neanche realizzato i lungometraggi, perché lui si occupava dei clienti pubblicitari che ci permettevano di guadagnare, e con quei soldi potevo produrre i film. E all’inizio è stato determinante l’aiuto di mio padre Umberto, una persona indimenticabile e favolosa. Ha sempre creduto nel mio lavoro, mi ha stimolato e aiutato sin dall’inizio, ed è stato davvero fantastico. Pensa che la prima macchina da ripresa che ho utilizzato era un’asse da stiro modificata da lui.
Senza gli introiti pubblicitari saremmo stati costretti a cercare altri produttori e quindi sarebbero iniziati i problemi, perché più si interviene sui progetti e più difficile è lavorare. Io credo che se abbiamo fatto delle cose belle in passato è stato perché c’era la totale libertà. Invece adesso tutto deve essere approvato, sono cambiati i metodi di lavoro. Sono rimasto completamente libero solo nei cortometraggi, quelli che trovi su internet. Questi film li realizzo in totale libertà perché costano relativamente poco e si possono fare con una certa facilità.
IM: Lei prima ha parlato di quanto l’intervento degli americani nella produzione del film Vip mio fratello superuomo fosse stato determinante e condizionante nella stesura della trama.
A questo punto la domanda sorge spontanea: che film avremmo visto senza le imposizioni dei produttori americani? Che cosa sarebbe cambiato nello svolgimento della storia?
Avremmo avuto un film interamente incentrato su Minivip?
BB: Ah! Bella domanda, non ci ho mai pensato. All’inizio era chiaramente una parodia dell’Uomo Mascherato di Ray Moore, che io leggevo da bambino.
La cosa caratteristica è che quando lui viaggiava in incognito sulle navi, indossava sempre un cappottone lungo a scacchi ed un cappello… E questa scena l’abbiamo voluta riprendere pari pari in Minivip.
Ma quando sono entrati nella produzione, gli americani hanno detto che sarebbe stato troppo limitativo incentrare tutto un lungometraggio sul solo personaggio di Minivip. E forse non avevano tutti i torti. Forse però io l’ho vissuta come una piccola imposizione, e non ho gradito molto il fatto. Ovviamente abbiamo dovuto aggiungere un’altra donna, Lisa, come la ragazza di Supervip, perché all’inizio c’era solo Nervustrella, la ragazza di Minivip.
Tu mi chiedi come sarebbe stato… Probabilmente sarebbe stato un miscuglio tra l’Uomo Mascherato e uno 007. Infatti c’è tutta la scena ambientata sull’isola, che ha le stesse atmosfere di un film di James Bond. Quand’è uscito il primo 007, con Ursula Andress che esce dall’acqua? Mi sa che era proprio quel periodo…
IM: 1962, l’ho controllato ora.
BB: E allora risente sicuramente di questa influenza. L’idea dell’isola forse nasce proprio da lì.
Comunque alla base c’è sempre l’Uomo Mascherato. Io a casa ho ancora i vecchi fumetti dell’epoca, che mi sono piaciuti e mi piacciono ancora moltissimo. Che cosa sarebbe successo se non fossero intervenuti gli americani? Beh, la storia sarebbe stata più o meno la stessa, perché non era cambiata. Solo che a cambiare sarebbero stati tutti i rapporti tra i personaggi. Se avessimo avuto solo Minivip, senza il fratello superuomo, chissà…
Ma se fate caso, in buona parte del film Minivip è solo. Se notate, le scene principali della storia che avevo scritto accadono proprio quando lui è da solo, perché il fratello arriva solo a cercarlo e a salvarlo. Si nota che è chiaramente stato aggiunto.
Noi abbiamo venduto West and Soda agli americani, che credo lo abbiano acquistato solo per motivi di tassazioni. L’hanno messo in un cassetto, non so neanche se è mai uscito. Però, visto che la cosa gli interessava, quando hanno saputo che stavamo facendo un secondo film sono venuti a vedere, a parlare, e poi sono entrati in minima parte…
BB: Un’altra cosa che mi hanno imposto sono le canzoni. Ed io non ho mai sopportato le canzoni nei film. Me ne hanno fatte inserire due, scritte da un loro musicista, che sono veramente deprimenti. Volevo eliminarle ma ero obbligato a tenerle perché mi assicuravano che un film dovesse avere per forza delle canzoni per poter uscire sul mercato americano. Cosa che forse era vera molti anni prima, ma non nel periodo di realizzazione del film.
Ma qualche canzone bella c’è. Quella del finale, quando marciano, ad esempio. E anche quella del ballo sulla nave. E così le canzoni dei titoli sono perfette, ed erano opera del bravissimo Franco Godi, come tutta la colonna musicale del film. Ma la canzone che accompagna la scena del leone sull’isola… è proprio uno schifo!
IM: Beh… perlomeno dura poco…
BB: È sempre troppo lunga (ride). Bisognava proprio tagliarla. Ma credo che esista una versione in cui sono riuscito a farla togliere, questa sequenza. Una persona a Como mi ha detto di avere visto un’edizione del film senza quel brano. In qualche modo ci ero riuscito, almeno per quella versione, ma non ricordo con quali stratagemmi.
Comunque, a parte queste modifiche iniziali, i produttori americani poi non sono intervenuti più di tanto nella realizzazione del film. A parte alcune piccole cose di poco conto. Ricordo quando hanno visto i cinesi che lavoravano alla fabbrica di Happy Betty. Ci hanno detto che se li avessimo fatti gialli avremmo perso tutto il mercato orientale. E così li abbiamo fatti verdi, come se cambiasse qualcosa! (ride)
Le modifiche erano spesso cose di questa portata. Nella scena sulla nave c’era una persona che prendeva il sole ed era scura di pelle e anche qui abbiamo dovuto cambiarne il colore, per evitare le proteste dei neri… insomma, scemenze del genere.
IM: È consapevole del fatto che la Pixar si sia ispirata Vip mio fratello superuomo per la realizzazione de Gli Incredibili?
BB: Sì, me l’hanno detto. Ed io ho risposto che se la Pixar prende spunti da me, ne sono felicissimo! Vuol dire che abbiamo fatto delle cose belle. In effetti, loro hanno preso molto dall’idea. Ma la Pixar possiede tutti i miei film, me li hanno chiesti, li hanno messi in archivio. Come probabilmente il film Mucche alla riscossa ha parecchie cose in comune con West and Soda. Sono cose che, tutto sommato, mi fanno piacere.
Mi ha poi reso felice scoprire che Ward Kimball, grandissimo animatore della Disney e mia grande ispirazione, quando insegnava all’accademia di animazione a Los Angeles diceva agli allievi che il suo film preferito era proprio Allegro non troppo. E’ stata una grande soddisfazione, specialmente perché detto da un artista di quel valore.
IM: Con West and Soda, a soli 25 anni, ha realizzato il primo lungometraggio animato dopo quasi vent’anni di silenzio (I Fratelli Dinamite e La Rosa di Bagdad erano del 1949).
Il fatto di non avere degli esempi più recenti, nel campo del lungometraggio animato italiano, vi ha reso dei coraggiosi pionieri. Eravate consapevoli di iniziare un nuovo modo di fare cinema?
BB: Oh, l’abbiamo fatto da incoscienti totali. Ci siamo divertiti molto, è vero, ma credo che l’incoscienza fosse l’ottanta per cento della nostra forza produttiva. Non sapevamo a cosa andavamo incontro, perché io ero un appassionato di cinema d’animazione, ma da lì a fare un lungometraggio…
Gli animatori che avevo erano Guido Manuli, Giuseppe Laganà, Sergio Chesani, Franco Martelli… tutta gente che aveva pochissima esperienza. Sapevano pochissimo delle tecniche della vera animazione, quella classica e raffinata. Ci siamo improvvisati. Oggi non lo faremmo, ragionando a freddo.
Allora invece la voglia era tanta, e i soldi c’erano, anche perché avendo già uno studio funzionante, il costo del film non è stato eccessivo. C’erano le attrezzature e le macchine necessarie, e quindi perché no? Mi ricordo che me lo suggerì Attilio Giovannini, che era professore di cinema all’università ed era anche diventato amico di famiglia. Eravamo in vacanza assieme con lui e la moglie, vicino a Taranto, e sulla spiaggia mi chiede se avessi mai pensato di fare un lungometraggio. Io non conoscevo neanche le regole del cinema: le entrate e le uscite di scena, i dialoghi, i campi e i controcampi, e tutta la tecnica necessaria. I nostri cortometraggi erano delle cose semplici, delle piccole scenette. Non conoscevo le regole cinematografiche, non avevo mai letto una sceneggiatura, non sapevo neppure come si scrivessero. Ricordo ancora le discussioni, quando mi spiegava le regole di un dialogo e delle direzioni facciali destra/sinistra… non sapevo neanche che cosa volessero dire queste cose.
Insomma, l’incoscienza è stata totale. Però c’erano tante idee, eravamo tutti giovani, con tanta voglia di fare qualcosa di nuovo. Ed è stato proprio questo a sostenerci.
E poi probabilmente era anche il momento fortunato. Era uscito nelle sale Sergio Leone, che ha iniziato la lavorazione di Per un pugno di dollari dopo di noi, ma è uscito nelle sale prima di noi, poiché lui ha completato il film in pochi mesi e noi in due anni e mezzo. Quindi anche l’uscita di Sergio Leone ha dato una spinta a questo genere, il western all’italiana… Poi era da vent’anni che in Italia non c’erano disegni animati al cinema, e anche questo ci ha aiutato.
Però ti assicuro che davvero sono stato fuori dal cinema, nascosto dietro a una colonna, a spiare se effettivamente qualcuno entrava a pagare il biglietto. Mi sembrava assurdo che qualcuno pagasse il biglietto per vedere un film nostro. Non ci credevo! Quando ho saputo dalla cassiera del locale che Celentano era già venuto tre volte a rivedere West and Soda sono rimasto stupito. E quando vedevo la gente che non trovava più posto al cinema Arlecchino, e se ne andava via, ero angosciato. Ma mi dicevano: stai tranquillo, chi è costretto ad andare via perché c’è troppa gente, ritorna sempre…
IM: Quanto è stato determinante l’apporto di Attilio Giovannini, per la realizzazione di West and Soda? È curioso sapere che Giovannini curò anche la sceneggiatura de I Fratelli Dinamite.
BB: Sì, infatti. Giovannini ha lavorato molto in pubblicità ed ha collaborato a lungo con Pagot. È stato lui a insegnarci le basi del linguaggio cinematografico.
C’è da dire che abbiamo avuto parecchie amichevoli discussioni durante la realizzazione delle sceneggiature: era bravissimo, molto preparato e serio, però per i nostri gusti forse era anche fin troppo serio. Lui era un professore, noi tendevamo e volevamo essere piuttosto originali.
Però è proprio a Giovannini che si devono alcune sequenze importanti, come la scena in cui il Cattivissimo fa il comizio e scimmiotta Mussolini dall’alto di una montagna.
IM: In questo film sembra quasi che Lei abbia trattato i personaggi come degli attori in carne ed ossa, e non come dei personaggi a cartoni animati.
Mi viene in mente la scena in cui Clementina si innamora di Johnny nella veranda. Potrebbe senza problemi finire in qualunque film western.
Ma a quest’aspetto realistico, nella costruzione dei dialoghi e dei profili dei personaggi, si affianca una predilezione per le gag più assurde e surreali. Come è riuscito a far convivere questi due aspetti così contrastanti?
BB: Si tratta di un conflitto tra la storia e le gag. Alla realizzazione del film collaborò Guido Manuli, un geniaccio incredibile, il Tex Avery italiano, in grado di sfornare cinquanta idee al giorno, una più fulminante dell’altra.
Il problema però era quello di mantenere una struttura narrativa solida, perché se racconti il film in un’ora e mezza devi dare una certa credibilità ai personaggi. E il dialogo in questo caso ti aiuta a creare una certa atmosfera, non dico realistica, perché i personaggi sono comunque stilizzati, ma perlomeno credibile.
D’altronde avevamo anche una voglia matta di inserire delle gag, e quindi alla fine ce ne fregavamo dell’atmosfera credibile: finita una sequenza in cui un personaggio piangeva, ad esempio, esasperavamo i toni e facevamo piangere tutti, anche gli animali e i vermi del terreno. Oppure inserivamo delle trovate come quella delle mucche che conservano il latte imbottigliato nella pancia.
Trovo che la gag bella sia quella inaspettata: se crei una certa credibilità, e poi di colpo la spezzi con la gag, funziona benissimo.
Diciamo che le gag sono più in linea con il cortometraggio e la nostra esperienza in questo campo. Mentre la parte realistica è quella che abbiamo dovuto affrontare per raccontare una storia di un’ora e venti. Perché non è facile intrattenere il pubblico per così tanto tempo. Oggi vedono anche film di cinque ore, ma allora…
E poi c’è una paura di fondo: dopo un quarto d’ora che vedi un disegno animato, hai già colto tutto quello che è la parte creativa e grafica: accetti la scenografia, i personaggi, e perdi quel senso di novità che nel cortometraggio ti tiene sempre alta l’attenzione. Nel lungometraggio c’è il rischio che l’interesse scenda, e quindi a questo punto la storia è fondamentale per tenere sempre in piedi l’attenzione. Ed anche le gag aiutano molto, soprattutto se originali e impreviste.
Sai, c’è un diagramma preciso per realizzare un buon lungometraggio in grado di intrattenere il pubblico e mantenere la stessa tensione. Io ho provato a disegnarne non so quanti: ti aiutano a capire quando serve una pausa, una scena movimentata, una musicale o dialogata, ecc. ecc.
IM: Come si realizza una gag?
BB: Non credo ci sia una meccanica fissa. Secondo i canoni tradizionali, la gag è l’imprevisto. Dicono che la prima gag in assoluto sia quella di quando la madre culla il bambino e poi finge di lanciarlo in braccio a una persona vicina. Ma è una finta, perché la mamma lo riprende ancora tra le sue braccia, e quindi il bambino ride, perché si aspettava di andare da un’altra parte e invece non è così. Questo è il meccanismo di base: ti aspetti qualcosa che non avviene.
Ma poi è molto più complessa. Ricordo a proposito una gag nata per Supervip: a un certo punto della storia il personaggio incontrava un pescecane e noi dovevamo decidere che cosa far succedere. Decidemmo che Supervip tirasse un pugno al pesce, ma era troppo banale. Allora pensammo che gli tirasse un pugno e gli strappasse tutti i denti. Ecco, sarà stato senz’altro Guido Manuli ad avere avuto un’idea del genere (ride). Poi un’altra persona decise di fargli strappare tutti i denti, ma insieme a questi estraesse anche lo scheletro, così che il pesce si potesse sgonfiare. Allora un altro propose di far gonfiare il pescecane come un pallone, e un altro ancora ebbe l’dea che Supervip legasse lo scheletro al palloncino e che il tutto volasse in cielo. Ecco un esempio di come possa nascere una gag “composita” in poco tempo unendo cinque idee diverse.
Se si lavora da soli, invece, bisogna ragionare tanto. Solitamente la gag è cercare di immaginarsi una situazione da punti di vista diversi, in ambienti diversi, e anche in epoche diverse. Quando lavoro sulle vignette, ad esempio, questo tipo di ragionamento mi ha aiutato spesso a scoprire originali soluzioni. Però la gag non ha una regola.
Ci sono artisti come Guido Manuli che non hanno nessuna difficoltà a inventarsi delle gag, altri invece ci impiegano più tempo. E poi c’è da dire che la gag ha un’efficacia che cambia a seconda della gente che la vede. Perché non è detto che tutti ridano alla stessa cosa. In America ho visitato gli studi della Blue Sky, quelli che hanno realizzato L’Era Glaciale. Loro, ad esempio, per controllare e perfezionare le gag, proiettano i loro film appena finiti ad un pubblico, che viene ripreso da telecamere nascoste. Dalle reazioni del pubblico scoprono se le battute arrivano a segno e le modificano in caso di mancato funzionamento.
Ciò ti spiega come neppure loro sappiano esattamente se una gag funzioni o meno. Perché la gag è spesso anche molto istintiva: un’azione che fa ridere me non è detto che faccia anche ridere gli altri. Inventare una buona gag è un po’ come aprire una cassaforte: si provano tutti i numeri, si continua a provare e riprovare, finché, in un modo o nell’altro, si arriva alla soluzione.
IM: Quali sono i suoi principali riferimenti, per la creazione di una gag?
BB: Ho iniziato con Tom & Jerry. Ricordo che ero a Londra per imparare l’inglese e saltavo gli appuntamenti alle mostre e ai musei per rinchiudermi nei Cameo, dei cinema che funzionavano tutto il giorno, anche la mattina, e proiettavano solo cartoni animati, di solito Tex Avery e Tom & Jerry. Ne avrò visti centinaia.
È qui che ho scoperto tanti di quei film d’animazione da cui poi ha anche copiato la commedia all’italiana. Prendi la scena di Fantozzi, quella del campeggio, quando lui per smontare una tenda si tira una martellata sul dito ma non può urlare dal dolore perché è sera e disturberebbe i feroci vicini, ed è costretto a correre ad urlare fuori dal campeggio. Quello spunto è preso pari pari da un famoso film di Tex Avery, dove ci sono uno sceriffo un po’ sordo e due banditi che devono aprire la cassaforte e ne combinano di tutti i colori. Anche qui, ogni volta che si tirano una martellata, o che si bruciano con la fiamma ossidrica, non possono urlare ma si devono tappare la bocca e correre in cima a una collina per cacciare l’urlo. Fantozzi ha preso qualche spunto anche dal Signor Rossi, se vogliamo. C’è una scena ne Il Signor Rossi a Venezia dove tutte le macchine vanno in senso contrario a quello della sua auto, e quindi lo sollevano e lo portano nella direzione opposta. Questa stessa situazione c’è anche in Fantozzi. In effetti lui ha preso molti spunti dai cartoni animati, e certe situazioni sono ancora più belle viste dal vero e con attori, perché diventano ancora più forti e surreali.
Questi erano i miei punti d’ispirazione dal punto di vista umoristico.
Tra i fumetti amavo B.C. di Johnny Hart, e da qualche anno ho scoperto Gary Larson, un umorista e un disegnatore favoloso. Disegna soprattutto insetti, è bravissimo. Pubblicava anche su Linus. Ha un disegno strano, che non si può definire bello, ma talmente efficace e divertente da risultare formidabile.
A Londra poi leggevo un altro formidabile disegnatore, Giles, che disegnava le vicissitudini di una famiglia inglese, con la nonna vestita di nero e dei bambini terribili.
Inoltre adoro Saul Steimberg, R.O. Blechman e Ronald Searle… tutti disegnatori che mi piacevano tantissimo.
IM: Ci saranno altre collaborazioni con Guido Manuli? La vostra coppia creativa funzionava parecchio bene…
BB: Beh, innanzitutto lui è andato a vivere ad Annecy, in Francia, e quindi chi lo becca più! (ride). È lassù, in riva al lago, e sta benissimo. L’ultima volta che l’ho sentito si stava chiedendo perché non si era trasferito prima…
Una nuova collaborazione? Non sarà facile perché la lontananza rende tutto più complicato.
Però la cosa curiosa è che, senza saperlo, lui è venuto a lavorare in uno studio con cui ho iniziato proprio io a collaborare per primo, la Maga Animation di Monza. Con loro ho realizzato I Cosi, e così ho parlato benissimo di questo studio di giovani, molto attrezzato. Poco dopo è arrivato anche lui e ha realizzato una serie in 3D molto carina, Acqua in bocca.
Fare qualcosa insieme? Boh, forse un lungometraggio sarebbe bello. Solo che con lui non era mica facile collaborare, aveva un caratteraccio! (ride) Voleva mettere tutte le sue idee, che erano tantissime, ma io ero costretto a dargli dei limiti: se dovevo creare un racconto e una precisa sequenza, c’era il rischio che lui me la riempisse di gag che rischiavano perfino di far dimenticare quello che stava succedendo. E questo era invece il mio compito da regista, tenere tutto sotto controllo…
IM: Mi viene in mente Opera, il corto che avete realizzato assieme…
BB: Già. La parte sua è bellissima, folle, e la mia è più logica…
Noi lavoravamo molto bene insieme. Io tendevo a dare maggiore importanza al contenuto e lui al particolare folle, e quindi ne usciva sempre fuori qualcosa di molto bello. Quando lui ha cominciato a realizzare dei film in proprio, ed era una cosa inevitabile, abbiamo deciso di separarci. Però siamo rimasti ottimi amici.
Da sinistra: il Sig. Bozzetto, il Sig. Rossi, il Sig. Tonin (foto di Stefano Guerrini).
IM: Osvaldo Cavandoli in passato ci parlò di un progetto mai andato in porto, un film a taglio erotico e a episodi che sarebbe stato realizzato da dieci diversi autori di cinema d’animazione. Si sarebbe intitolato Decamasutra. Ci raccontò che anche Lei sarebbe rientrato nel progetto. Ce ne può parlare?
BB: Era una delle tante idee che poi non vengono mai realizzate. Poteva essere un film carino. Avevamo tanti autori e ognuno avrebbe dovuto fare qualcosa di bello sul sesso. Il problema era che gli studi erano tanti: chi si sarebbe assunto la responsabilità di selezionare il materiale e decidere quale lavoro fosse bello o da scartare? Visto che tutti facevano una parte, bisognava accettare tutto. Però se qualcuno presenta un brutto lavoro, e nessuno ha il coraggio di dirglielo, gli altri autori si trovano a collaborare ad un film che contiene anche del brutto lavoro. Purtroppo il regista ha quella figura: deve tagliare, nel bene e nel male. La responsabilità alla fine è la sua. Ma occorre sempre una persona che decida, e in questo progetto non c’era. Però l’idea non era niente male.
IM: Quali erano gli artisti interessati?
BB: Si pensava di chiamare tutti gli studi di animazione dell’epoca. Io volevo chiamare anche lo Studio Pagot, ma ce lo vedete Calimero nel Decamasutra? Sarebbe stato un problema non facile da risolvere, insomma… Infatti quando di solito si affrontano progetti di questo genere, chiamiamolo patchwork, con tanti autori coinvolti, c’è sempre dietro una persona sola che ha l’idea e finanzia l’operazione. Nel nostro caso invece, trattandosi di una produzione italiana, eravamo obbligati a chiamare tutti. E chi si sarebbe preso la responsabilità di non chiamare uno studio? Quindi non se n’è fatto più niente. Però è un vero peccato, perché era una bella idea…
IM: Sarebbe stato un lungometraggio, giusto?
BB: Sì, l’idea era quella di fare un lungometraggio composto da molti cortometraggi diversi.
IM: Altri progetti del genere sono rimasti nel cantiere?
BB: Beh, io avevo un progetto a cui ho lavorato parecchio. Ho anche realizzato anche una specie di pilota. Volevo realizzare un film come Allegro non troppo, ma basandomi sui più bei racconti di fantascienza del mondo. E ricordo, tra gli autori prescelti, Robert Shecley, Ray Bradbury, Isaac Asimov, Fredric Brown… A Los Angeles avevo anche contattato Robert Silverberg e gli avevo pagato l’opzione per trarre un film da un suo racconto. Ho fatto realizzare dalla RDA70 dei disegni illustrativi per una storia, molto belli, ma poi non si sono trovati i produttori. Perché il punto è che io non so proprio trovare i produttori! Ho sempre fatto film con i miei soldi, ma se devo mettermi a ricercare i soldi non so nemmeno da che parte iniziare. Peccato, perché anche questa non era brutta, come idea…
IM: Che storie erano?
BB: Adesso non me le ricordo con esattezza. Però erano sei o sette storie di fantascienza, una più bella dell’altra. A proposito di fantascienza, mi viene in mente che nessuno scrittore tra tutti quelli che nei loro racconti pensavano di predire il futuro ha mai previsto Internet. Si immaginavano i mondi con le televisioni grandi, gli uomini trasformati in robot, ma nessuno ha previsto né i telefonini e né Internet, che è stata una rivoluzione totale. Nessuno l’ha prevista, nessuno! È incredibile, per farti capire come sia difficile prevedere in che direzione andrà il mondo…
IM: Viste le difficoltà nel mercato italiano, ha mai pensato di farsi produrre nuovamente dagli americani, come già fece in passato con Vip e Help! ?
BB: Sì, ma in generale nel passato non sono mai io che sono andato a cercare la gente, ma sono loro che cercavano me. E siccome non mi cercano (ride) non posso fare niente. Io non so da chi andare. Per il progetto del film sulla fantascienza avevo mandato il materiale con i disegni a Steven Spielberg, ma la busta col materiale mi è tornata indietro ancora chiusa! Loro non lo aprono neppure! Perché nel momento in cui lo aprono, e poi un giorno facessero qualcosa di simile, gli potrei fare causa. Per cui se non hai amicizie particolari loro neppure esaminano il materiale che gli viene spedito. Ci sono stati dei casi in cui alcuni scrittori hanno fatto causa, perché anche una sola frase può dare il via a un film…
IM: In un’intervista ha dichiarato di avere già pronte le sceneggiature di due nuovi ipotetici lungometraggi.
Potrebbe parlarcene o anticiparci qualcosa?
BB: No (ride). Beh, uno dei due è morto e seppellito. Si chiamava Mammuk e la cosa bella è che nei cataloghi della Animation Band c’è scritto che il film è già uscito! E invece non è mai stato neppure iniziato…
L’altro invece è un lungometraggio con Minivip e Supervip. Questa è una bella storia, che poi secondo me è molto attuale. Io purtroppo non sono più entusiasta come prima del lungometraggio, perché è un ambiente che è diventato troppo difficile. Purtroppo, per quanto ci si sforzi di fare un film che costi poco, si tratta sempre di un costo troppo alto. E se non c’è una pubblicità di un certo livello nessuno saprà neppure che il film esiste.
Faccio un esempio surreale, ma non troppo: se mi rivolgo a qualcuno e gli chiedo se ha mai visto Le avventure di Nemo, quello, in caso contrario se ne vergogna e corre a comprare il DVD. Perché si rende conto che non può NON andare a vederlo. Se gli parlo invece di Aida degli Alberi, o di Juan Padan, mi chiedono che cosa siano. Non sanno neanche che esistano, questi film! Quindi come si fa a competere in queste situazioni? Oggi è così: chi va al cinema ci andrà una o due volte al mese. E che cosa andrà a vedere? Senz’altro un film di cui non può fare a meno, un film di cui i giornali hanno parlato per mesi e mesi.
Vedi, io talvolta vengo invitato alle presentazioni della Disney… e quando parlavano degli Incredibles mancava un anno e mezzo all’uscita del film, eppure già dicevano su quante riviste settimanali uscivano fotografie e articoli sugli Incredibles. Un anno e mezzo prima!!! E c’era un elenco che non finiva più!!! Ed eravamo solo in Italia, figurati nel mondo! Se il film costa 80 milioni, questi ne spendono altrettanti in pubblicità. E poi hanno il merchandising che precede l’uscita nelle sale. Insomma, lasciamo perdere: non possiamo competere con la Ferrari, se abbiamo un triciclo… fa ridere.
Tolti questi aspetti l’idea del lungometraggio a me piace moltissimo, mi affascina. Ho scritto questa storia di Vip insieme a Nicola Ioppolo, ci siamo divertiti, e può anche darsi che un giorno si faccia. Però, onestamente, è dura.
IM: Allegro non troppo vanta la presenza di quasi tutti i più grandi animatori italiani dell’epoca. E forse la sua forza sta proprio nella sua eterogeneità. Com’è stato coordinare così tante menti e così tanti stili in un unico progetto creativo?
BB: Basta entusiasmarli. Se gli dai un buon progetto, una buona musica, e una buona storia, è facile entusiasmare. Oggi non lo so, però allora erano tutti carichi, lavoravano con passione e senza sosta. Sono stati anni meravigliosi per noi. Anche lavorando tantissimo, c’era la voglia di fare qualcosa di diverso, di nuovo. Oggi la novità ha perso lo smalto, e la gente si arrampica sui muri per farsi notare, ed alla fine scade nel cattivo gusto o in cose provocatorie… E’ difficile fare una cosa bella al giorno d’oggi, che si stacchi dal resto della produzione e che si faccia notare.
E quindi è più faticoso sollevare entusiasmo, che invece allora era tanto. Forse in Vip mio fratello superuomo ce n’era un po’ meno, perché avevamo appena finito West and Soda. Però con Allegro non Troppo erano passati dieci anni e l’interesse era rinato. E devo dire che hanno lavorato tutti con grandissimo entusiasmo, da quelli del mio studio, Guido Manuli, Maurizio Nichetti, Giuseppe Laganà, Giorgio Valentini o Giancarlo Cereda in prima linea, agli artisti della RDA70, tra cui, per citarne solo alcuni, Giovanni Ferrari, Walter Cavazzuti, Angelo Beretta o Paolo Albicocco. Hanno fatto lavori splendidi…
IM: E non crede che sarebbe possibile, al giorno d’oggi, ripetere un’operazione del genere? Le tecnologie potrebbero aiutare.
BB: Sì, direi di sì. Infatti nel 3D, secondo me, essendo una cosa nuova, c’è ancora parecchio entusiasmo. Io l’ho ritrovato in questo Studio Maga con cui collaboro. Ai tempi di Allegro non troppo, dirigere le operazioni non era molto facile: dovevo andare dal mio studio a quello di Laganà, e poi dalla RDA70… Una corsa continua.
Mi ricordo ancora le discussioni su ogni piccola cosa: ad esempio, alla fine del Valzer Triste in Allegro non troppo dovevamo animare una palla di metallo che deve sfondare la vecchia casa abbandonata. Abbiamo perso due ore a chiederci se, quando si avvicina la palla, l’ombra ingrandisce o rimpicciolisce. E poi c’era un grosso lavoro di approfondimento di ogni cosa: ricordo che hanno fatto un modellino in plastica di tutte le case della città presenti in questa sequenza del film, le hanno fotografate, per studiarne meglio la prospettiva. C’era veramente il piacere di lavorare a qualcosa di unico.
IM: In Allegro non troppo, in origine, erano previsti altri brani musicali da animare?
BB: Sì, me ne hanno bocciati alcuni. Una musica bellissima di Mahler, ad esempio, ma in quel caso era colpa mia. Avevo trovato un inizio bellissimo, ma poi la musica andava verso una direzione opposta alle immagini. Credo fosse la Sinfonia n.1. E All’inizio funzionava benissimo: mi ero immaginato dei camion che al tramonto salivano su una scogliera a picco sul mare, e si vedevano solo le loro silhouettes. Poi, arrivati in cima, tutti questi camion scaricavano le auto in mare, che noi vedevamo precipitare. Le auto andavano sott’acqua e si depositavano sul fondo del mare, dove ce n’erano a migliaia perché era una discarica di auto. A un certo punto la musica di questa sinfonia ha dei fremiti, ed io li avevo associati al fatto che queste auto iniziassero a prendere vita, a fremere appunto, e diventassero una specie di enorme robot che usciva dall’acqua. Ed era una scena bellissima, perché le immagini e la musica legavano in una maniera perfetta. Però, arrivati a quel punto io avevo bisogno di completare la storia: che cosa avrebbe fatto questo robot una volta uscito dall’acqua? La mia idea era che andasse a prosciugare tutte le pompe di benzina del mondo, o qualcosa del genere. Invece la musica prendeva tutta un’altra direzione. Per dirti che il problema non è tanto nell’idea iniziale, quanto nel trovare una musica che riesca a sostenere la storia dall’inizio alla fine.
Poi avevo il Till Eulenspiegel di Strauss. Avevo scritto quasi tutta la storia ma non mi hanno concesso il permesso di utilizzarlo.
E poi, al posto dell’Uccello di fuoco di Stravinsky avevo scelto un complesso tedesco di cui non ricordo il nome. Un gruppo di personaggi molto strani, che quando suonavano erano vestiti interamente di nero, con gli strumenti neri, il sipario nero, e hanno fatto il loro disco tutto in nero con le scritte dei titoli con un nero diverso. Dei matti furiosi! Però la musica era molto bella e avevo già disegnato tutto lo storyboard, ma non mi hanno lasciato i diritti. Era sempre la storia che ora vedete accompagnata dall’Uccello di fuoco, ma la musica di accompagnamento era diversa e quindi cambiava anche il modo di realizzarla. Era una musica tutta aggressiva, non saprei definirla. Era molto curiosa, veramente moderna. E mi sarebbe piaciuto accostare una musica moderna a musiche classiche. Mi sembrava anche giusto come concetto.
Comunque ne ho ascoltati tantissimi di brani, per selezionare i definitivi che poi sono stati utilizzati…
IM: Lei ha più volte dichiarato di essere un regista di cartoni animati per adulti.
L’America ha lanciato le sue serie per adulti e ha fatto successo in tutto il mondo: Ren & Stimpy, I Simpson, South Park, Beavis and Butthead…
Perché l’Italia non punta su questo settore? Credo che il pubblico italiano sia ormai abbastanza collaudato per qualcosa del genere. Non sarebbe solo una boccata d’aria fresca nell’animazione, ma anche un ottimo investimento…
BB: In Italia è molto difficile. Con la RAI ad esempio non se ne parla neppure. Loro pensano soprattutto al pubblico infantile e temono di non far presa su di loro. Anche l’autore di Ratman ha avuto questo tipo di problemi. Ma questa è una cosa tipica dell’Italia: quando ho fatto Allegro non troppo, nel ’75, l’avevo già prodotto e finito lo proposi alla Cineriz per la distribuzione. Il film era già finito e completato e mi serviva solo la distribuzione e una pubblicità che ne aiutasse il lancio. I grandi “vecchi” della Cineriz vedono il mio film e mi dicono: complimenti, il film è bellissimo, però non è per bambini e non è porno, quindi non ha pubblico. E hanno dimenticato così la fascia di mezzo, quella dei giovani, quella che ha tenuto in vita il cinema. Ed è così che il film è uscito prima in America, rimanendo per mesi nelle classifiche dei cinquanta film più visti. È stato un distributore italiano che, visto il successo, mi ha proposto di farlo uscire anche in Italia. E quando è uscito gli spettatori erano tutti giovani. Il pubblico vero era proprio quello che loro avevano ignorato. E quelli che me l’avevano bocciato erano proprio i soloni della distribuzione, quelli che dovevano stabilire le tecniche di mercato! Questo la dice lunga su come in Italia si viva male se si vuol fare uscire qualcosa di nuovo. Montanelli aveva scritto che l’Italia è il paese delle seconde visioni, e aveva ragione. Se una cosa funziona altrove allora va bene anche qui, ma se si tratta di fare il primo passo allora MAI. Vedi I Simpson, I Griffin, South Park… sono tutte produzioni americane.
IM: E magari realizzate da autori che si sono ispirati ai cartoni animati italiani.
BB: Ed è proprio questo che fa rabbia: doversi barcamenare e lottare, non per fare cose esclusivamente per adulti, ma che non siano SOLO per bambini. Ma forse è una battaglia persa, e talvolta mi sento un po’ come Don Chisciotte…